La vulvodinia, così come le altre sindromi da dolore cronico, è spesso correlata a problematiche muscolari. I muscoli reagiscono al dolore contraendosi: è un meccanismo di difesa naturale. Il mantenimento di una contrattura sul lungo periodo risulta però nocivo per i tessuti circostanti: un muscolo perennemente contratto non è un muscolo sano.
Se la contrattura è dovuta a un’infiammazione, come quella alle fibre nervose periferiche nel caso della vulvodinia, si instaura un circolo vizioso in cui l’infiammazione genera la contrazione e la contrazione a sua volta non facilita la remissione dell’infiammazione.
Un trattamento fisioterapico può aiutare a rompere questo circolo vizioso.
Scopriamo insieme alla Dottoressa Ileana Luglio, fisioterapista esperta in riabilitazione pelvi-perineale e osteopata, in che modo il ruolo del fisioterapista si affianca a quello di altri specialisti nella risoluzione di diverse patologie ginecologiche.
(Domanda): La figura del fisioterapista è sempre più spesso accostata al trattamento di patologie ginecologiche. Qual è il suo ruolo in questo approccio combinato?
(Risposta della Dott.ssa Luglio): Da fisioterapista e osteopata mi occupo da anni delle disfunzioni del pavimento pelvico e in particolare delle problematiche legate al dolore pelvico, quindi di una serie di disturbi come la vulvodinia, la sindrome della vescica dolorosa, le disfunzioni ano-rettali e altre patologie che causano stati dolorosi e che sono spesso correlate all’apparato fascio-muscolo-scheletrico e nervoso e qui l’anello di congiunzione con la fisioterapia e il motivo per cui quest’ultima è così importante nel trattamento di queste patologie.
Il ruolo del fisioterapista è quello di occuparsi del dolore miofasciale (muscolare) e la zona pelvica è ricca di strutture miofasciali. Queste strutture sono in relazione con gli organi presenti in quella sede come la vescica, l’uretra, la vagina, la vulva e il tratto retto-anale ed è spesso da questi organi che partono i segnali che vanno poi a influenzare i muscoli e viceversa.
Perché la terapia manuale è così importante?
Perché la valutazione palpatoria di una mano esperta permette di riconoscere le asimmetrie muscolari, le densità tessutali, i punti dolorosi. Permette inoltre di individuare se ci sono restrizioni di movimento, di percepire la risposta tissutale alle sollecitazioni in compressione e/o in trazione. Per risposta dei tessuti intendo la reazione dei tessuti miofasciali propria della biomeccanica del muscolo.
Praticamente attraverso la terapia manuale è possibile valutare la salute dei muscoli.
Per dirla con parole semplici, ci sono delle caratteristiche intrinseche del tessuto muscolare che il fisioterapista è in grado di individuare, ad esempio la resistenza del muscolo nel momento in cui si applica una compressione o una trazione; oppure l’elasticità che è la caratteristica che permette ai tessuti di ritornare alla forma iniziale una volta cessata la sollecitazione. La caratteristica intrinseca opposta all’elasticità è la plasticità che è la proprietà biomeccanica del tessuto che permette di mantenere il cambiamento che il muscolo subisce durante il trattamento.
Queste caratteristiche intrinseche delle fibre muscolari costituiscono le proprietà viscoelastiche del muscolo.
Le mani sono lo strumento con cui la valutazione di queste proprietà viene effettuata, ma per una valutazione completa, alle mani occorre abbinare anche la testa e il cuore.
La terapia manuale, utilizzando tecniche precise, fini, adeguate permette di veicolare informazioni al cervello della paziente.
Mi piace citare questa frase di San Francesco d’Assisi, a tal proposito: “Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista”.
L’efficacia della terapia manuale è stata anche dimostrata in un articolo del 2001 per il trattamento della sindrome della vescica dolorosa. La tesi dimostrata nell’articolo è che le contratture (dette anche trigger points) non solo provocano dolore e aumento della frequenza minzionale ma sono anche la causa dell’infiammazione neurogena della vescica.
Ecco perché anche il fisioterapista subentra nella presa in carico di queste problematiche che, sottolineo, richiedono sempre un approccio multimodale e quindi la collaborazione attiva di diverse figure sanitarie.
La terapia manuale, fa parte di un percorso fisioterapico che non si deve limitare solo a trattare la zona dove si manifestano i sintomi, ma occorre tenere conto anche dei relativi compensi.
Ogni individuo è uguale solo a se stesso e assume una varietà di adattamenti posturali soggettivi.
Pertanto il trattamento non può essere standardizzato perché ognuno presenta adattamenti differenti ed è evidente, quindi, quanto sia importante trattare queste disfunzioni agendo nella più totale globalità, al fine di eliminare sia il dolore che la causa del sintomo.
La peculiarità del fisioterapista è quella di spaziare in una vasta possibilità di approcci nell’ambito della riabilitazione in base alla propria formazione e al continuo aggiornamento. Lavorerà per raggiungere vari obiettivi tra cui l’eliminazione dei fattori di predisposizione e mantenimento della problematica, il riapprendimento delle normali funzioni neuromuscolari, il ripristino di un adeguato livello di efficienza fisica e fornirà alla paziente i mezzi per controllare autonomamente i propri disturbi mialgici.
Cosa comportano le disfunzioni del pavimento pelvico?
Portano a disfunzioni dell’apparato urologico, genitale e gastrointestinale.
Durante la valutazione muscolare possiamo riscontrare delle caratteristiche tipiche di diverse disfunzioni. Queste condizioni portano a un “underactive pelvic floor”, ovvero a un pavimento pelvico che non si contrae volontariamente, oppure a un “overactive pelvic floor” ovvero un pavimento pelvico che non si rilassa e questa condizione è spesso causa di dolore. Oppure ancora a un “inactive pelvic floor ” in cui non c’è contrazione né volontaria, né riflessa.
Sono tutte condizioni in cui la muscolatura non si comporta in maniera funzionale, fisiologica.
In relazione alle problematiche pelviche si cita spesso il muscolo elevatore dell’ano ma il pavimento pelvico è un’area muscolare molto complessa e non sempre il responsabile del dolore è un unico muscolo, ci sono circa venti muscoli da valutare e trattare in maniera precisa e specifica.
Potrebbe spiegarci cos’è un trigger point e come si origina?
Il trigger point è un sinonimo di contrattura: è un fascio di fibre muscolari che rimane contratto involontariamente.
Per semplicità, i muscoli quando si contraggono si accorciano e quando si rilasciano si allungano. Ma ogni muscolo è composto al suo interno da diverse fibre.
Potremmo immaginarle come delle corde affiancate una all’altra.
Fin quando si muovono in maniera coordinata non c’è problema, ma nel momento in cui all’interno di un muscolo, una o più di queste corde si accorcia rispetto alle altre, ovvero rimane contratta, forma come dei nodulini individuabili al tatto. Questi sono i trigger points.
Le contratture possono avvenire in tutti i muscoli anche in risposta a un’infiammazione, oppure a una continua sollecitazione.
In soggetti predisposti o con problematiche posturali queste contratture si formano più facilmente; se i muscoli rimangono a lungo in contrazione alimentano il risaputo meccanismo contrattura-dolore.
Ma come si è già accennato in genere non è mai un unico muscolo a essere il solo coinvolto nella contrattura, perché lo stato di ogni muscolo influenza i muscoli e i tessuti vicini: se la contrattura è grande o è vicina a un nervo/vaso è normale che ne sia influenzato anche il sistema nervoso e quello circolatorio. Se i muscoli contratti sono vicini all’uretra, influenzeranno sia quella che la mucosa e la cute.
Ma capita anche che le contratture dei muscoli irradino il dolore a distanza rispetto alla posizione del muscolo. Ad esempio, il muscolo otturatore interno, più distante dalla vagina, irradia dolore anche nella zona uretrale.
Tornando alla vulvodinia, quand’è la prima volta che ne ha sentito parlare?
La prima volta è stata nel 2008 a un congresso a Venezia, l’ “International Pelviperineology Congress”.
Nel 2010 ho iniziato a frequentare dei corsi sul dolore pelvico, anche se avevo iniziato la formazione in campo pelvico già dal 2002 occupandomi di problematiche quali incontinenza e prolassi.
E come ha iniziato a interessarsi e a lavorare con le pazienti vulvodiniche?
Ho iniziato grazie a un neurologo che mi ha fatto appassionare nuovamente alla neurologia. In questo ambito la parte neurologica è fondamentale e complementare a quella fisioterapica.
Oltre al dolore, ci sono altri sintomi che la contrattura comporta nella vulvodinia?
Può comportare ridotta elasticità muscolare, segni e sintomi neurovegetativi come l’alterata irrorazione sanguigna nella zona interessata e l’alterata secrezione di muco vaginale.
Molte donne avvertono una maggiore tensione muscolare generale in risposta a tensione emotiva e traggono benefici in attività che aiutano a rilassare il corpo come lo yoga, il training autogeno o la mindfulness. Pare che queste attività aiutino anche a tenere sotto controllo i sintomi della vulvodinia.
Secondo il suo parere, quanto è importante il fattore emotivo in questa patologia?
Il fattore emotivo è importante perché il dolore è una percezione cosciente, sensoriale.
Uno stimolo, di qualunque tipo esso sia, viene interpretato dal sistema nervoso, ma anche dal sistema ormonale e immunitario. Le vie che arrivano all’area corticale deputata al dolore vengono mediate dal sistema limbico, che è un insieme di strutture complesse che elaborano le emozioni. I due sistemi si influenzano costantemente.
In che modo riescono a influenzarsi? Ci può fare un piccolo esempio?
La proiezione dei segnali dolorosi che arriva al sistema limbico sta alla base dell’effetto che ha il dolore sullo stato d’animo (il dolore rende irrequieti e tristi). Tuttavia, il sistema limbico influenza anche la percezione cosciente del dolore: chi è euforico o sotto choc non sente dolore. Viceversa chi è ansioso avverte il dolore in maniera più accentuata.
Una caratteristica fondamentale tipica sia delle sindromi di dolore muscolo-scheletrico persistente che in quelle di dolore pelvico cronico è la presenza di sensibilizzazione centrale e di sensibilizzazione periferica che sono fenomeni fisiologici e presenti nel breve termine, ma che quando persistono nel lungo termine portano ad un processo di maladattamento neuronale e quindi alla cronicizzazione dell’esperienza dolorosa.
Quello che succede è che una lunga esperienza di dolore fa sì che i nervi periferici interpretino gli stimoli non nocicettivi (quindi gli stimoli non dolorosi, come il contatto con un oggetto innocuo) come se fossero stimoli dolorosi, abbassando la soglia di attivazione. Questo causa iperalgesia ovvero una sensazione dolorifica spropositata rispetto allo stimolo.
Sempre più spesso nella gestione del dolore cronico si prende in considerazione il modello Fear Avoidance Model ovvero il Modello della Paura e l’Evitamento. Una persona che sperimenta episodi ripetuti di dolore ad un certo punto si troverà davanti ad una scelta tutte le volte che dovrà affrontare quelle attività che possono provocare il dolore o addirittura soltanto ricordare il dolore: sperimentare nuovamente il dolore oppure evitare quella situazione e tutto ciò che comporta? E la scelta, in genere, ricade su quest’ultima: è così che una persona inizia a evitare ogni situazione che le comporti dolore.
Il processo di evitamento però svilupperà una sorta di disabilità perché comporterà una diminuzione di quelle che sono le attività quotidiane e svilupperà kinesiofobia, ovvero la paura di movimenti ritenuti pericolosi. Questo porterà la paziente in un vortice di frustrazione, depressione per le attività che ha dovuto sospendere. Inoltre ci sarà anche un peggioramento delle qualità biologiche dei tessuti che vengono sempre meno utilizzati.
Riguardo al movimento in senso più ampio, che peso ha lo sport nelle donne che soffrono di vulvodinia?
L’attività fisica è parte essenziale sempre, anche nel trattamento del dolore miofasciale.
Ma è molto importante fare un’attività adatta alla persona. Questa attività deve essere concordata dagli specialisti da cui si è seguite e dall’istruttore. Inoltre, deve essere consona al periodo del trattamento.
Si deve iniziare sempre gradualmente: la paziente deve essere consapevole che non potrà cominciare in maniera eccessiva. Si deve capire quali sono gli esercizi che aumentano il dolore nel proprio caso. Si deve imparare a rilassare i muscoli e in particolare si deve imparare a rilassare il pavimento pelvico durante la sessione di allenamento o alla fine della sessione di allenamento attraverso degli esercizi opportuni.
Ci sono tecniche o sport che sconsiglierebbe a chi soffre di una contrattura del pavimento pelvico?
La bicicletta e l’equitazione non sono il massimo, perché causano compressione e sfregamento nella zona vulvare e sulle tuberosità ischiatiche.
Ma in generale, ogni sport va valutato e contestualizzato in base alla persona e all’evoluzione della problematica. Anche Pilates fatto in modo non intelligente può essere non adatto, ma con la giusta consapevolezza e padronanza è una disciplina che si può fare.
Quello che è importante è integrare all’esercizio fisico, qualunque esso sia, il rilasciamento mirato dei muscoli del pavimento pelvico.
Cosa intende per Pilates fatto in maniera non intelligente?
Il metodo Pilates che propongono oggi è spesso eseguito in maniera non corretta. Il Pilates originale è un metodo atto a riattivare le restrizioni articolari e le restrizioni muscolari. È un insieme di tecniche personalizzate e contestualizzate in base ai problemi dei singolo individuo.
Oggi in un normale corso di Pilates ci sono troppe persone seguite da un unico istruttore e questo costituisce un limite per chi ha delle problematiche particolari.
Ci sono attività che vanno bene un po’ per tutte?
Camminare fa bene, favorisce la circolazione. Fare almeno una camminata di 40 minuti al giorno può essere di aiuto perché si attiva il meccanismo delle aree corticali legate al dolore e alle emozioni.
Questi meccanismi studiati dalle neuroscienze stanno alla base della comprensione del legame tra dolore e emozioni.
Una vulvodinica si sente spesso ripetere “è tutto nella tua testa” ma non è corretto. Non nel modo in cui si intende questa frase.
Ci sono ragioni neurofisiologiche ben precise dietro la percezione del dolore e di quanto la componente emotiva incida su tale percezione.
C’è qualcosa in particolare che consiglia alle sue pazienti per aiutarle a maturare la consapevolezza sulla vulvodinia?
Cerco di spiegare chiaramente la situazione in cui la paziente si trova. L’educazione sulle cause del dolore è importante perché le informazioni migliorano l’aderenza al trattamento e sono alla base dell’autogestione. Spiego che l’approccio medico integrato è importante ma è tanto importante anche la collaborazione della paziente. La paziente è la protagonista principale e ci deve mettere tanto del suo.
Il trattamento dei muscoli pelvici è solo una parte della gestione del dolore.
Parlando dell’aspetto sociale, a suo parere quale sarebbe la chiave di volta che aiuterebbe le donne affette da vulvodinia?
Questa intervista è un risvolto sociale, quello che fate voi con l’associazione e con il sito è molto importante. È importante mirare a obiettivi semplici e possibili.
Sicuramente è importantissima la diagnosi precoce.
La chiave vincente per ogni donna sarebbe quella di essere seguita da un team di professionisti che conoscono la problematica ma non esistono tanti team integrati a questa maniera attualmente.
Però diversi professionisti che hanno l’umiltà (e l’umanità) di ammettere i propri limiti vengono in aiuto delle pazienti collaborando attivamente con le altre figure mediche.
Ha un messaggio di incoraggiamento da dedicare alle donne che soffrono di vulvodinia?
Vorrei citare loro un proverbio marocchino: “Tutto nasce piccolo e poi cresce, solo il dolore nasce grande e poi diventa piccolo”.
Ci sembra al tempo stesso un buon consiglio e un buon augurio, grazie!